La nostra "naja"

Aldo Barberi

Appunti di vita militare alla Caserma “Vodice” nell’anno 1967 di Aldo Barberi.

 

Per raccontare un po’ la storia della mia esperienza tra i Pionieri della Vodice a Bressanone, è necessario fare una piccola premessa.

Nel 1966, terminato il corso Allievi Ufficiali alla Scuola del Genio alla Cecchignola, dato che avevo terminato tra i primi e che questi avevano la possibilità di scegliere la destinazione d’appartenenza, scelsi di essere aggregato alle Truppe Alpine. E così, assieme all’amico Mario Bernasconi con il quale ho trascorso tutta la mia naja, fui destinato a Udine, nella Julia per il periodo da sergente AUC.

Anche se chiamato a fare “l’architetto” al comando Brigata, per me fu un’esperienza amara: il Capitano, di cui non ricordo il nome, era una persona triste, il vice, il ten. La Monarca, era un complessato; non voglio proseguire oltre nei commenti.

Così, terminato il periodo alla “pio pio” (così era chiamata la caserma dei pionieri a Udine), con il grado di sottotenente, venni destinato a Bressanone, che allora era minacciata dagli attentati dinamitardi dei terroristi altoatesini. Proprio per questa ragione, invece che dormire all’esterno come dovrebbero fare gli ufficiali, io e Mario restammo in caserma. Io fui destinato nella camera assieme al vicecomandante della Compagnia, Tenente Pescatore, che all’inizio con la sua folta barba nera mi faceva un po’ soggezione. Lui parlava poco, io altrettanto, e così presto si stabilì una tacita intesa che man mano si consolidò e che col passare del tempo divenne stima ed alla fine amicizia. Il comandante della Compagnia, il Capitano Pagano, all’inizio lo vedevo lontano, abituato in famiglia ad una grande considerazione dell’Autorità. Ben presto però, l’intesa si fece totale e la mia preoccupazione principale fu quella di svolgere nel migliore dei modi gli ordini che da lui ricevevo. Dei primi tempi, quando i grandi lavori all’esterno non si potevano fare perché nelle zone operative c’era ancora la neve, ricordo qualche episodio.

Una volta, con alcuni pionieri fui incaricato di ripristinare un percorso di guerra a Varna che era andato in disuso. Un pomeriggio, mentre si lavorava si scatenò un vero diluvio ed il mio primo istinto fu di salire sul camion al riparo. Ma i miei soldati non fecero una piega e continuarono a lavorare: mi vergognai dentro di me e rimasi con loro. Quell’episodio mi fece capire di che tempra erano i pionieri, specie quando erano motivati da un obiettivo.

Un’altra volta, dato che c’era una festa importante con gli alpini della Brigata, il Capitano mi disse: ”Barberi, faccia fare un po’ d’addestramento formale in modo che i pionieri possano fare bella figura”. Dato che il cortile della caserma era troppo angusto, ci trasferimmo a marciare sul vialone di fronte alle scuole; mi impegnai al massimo, ma i risultati erano scoraggianti. Chi non andava al passo, chi teneva le mani in tasca perché faceva freddo, chi ciondolava col busto avanti ed indietro: un disastro. Mi venne in mente quando ero a Roma, dove l’addestramento formale era basilare perché si doveva fare la guardia al Senato, alla Camera o al Quirinale e la perfezione nella marcia era simile a quella delle truppe prussiane. Anche questo mi fece capire che tra i pionieri, quello che contava era la sostanza e non la forma.

Una cosa che ricorderò sempre erano le camerate. I nostri pionieri erano essenzialmente veronesi e altoatesini, quelli che in gergo chiamavamo “tralicci” per via degli attentati. Forse anche perché sullo stesso piano dormivamo noi ufficiali, nelle camerate regnava un ordine ed una pulizia esemplare, a differenza di Udine dove entrando in camerata sembrava d’essere arrivato in una cantina di stagionatura dei formaggi. Poi si cominciò ad uscire dalla caserma. Per quindici giorni fui aggregato agli artiglieri a Dobbiaco dove feci varie cose. Una volta dovetti fare una ricognizione su di un percorso che il giorno dopo avrebbero fatto gli artiglieri con i loro muli (a proposito di muli, erano animali possenti che mi facevano una gran paura) e dovevo sincerarmi che i terroristi non avessero piazzato trappole esplosive, ma normalmente andavamo verso il rifugio Sennes ad aprire la strada chiusa dalla neve. Il c.m. ci portava su da Dobbiaco, noi cominciavamo a spalare, e poi ritornava in caserma a prendere il rancio che era essenzialmente un bidone di pastasciutta. Una volta mi ricordo che la pasta era ricoperta di ghiaccioli, tanto faceva freddo, ma la fame era tanta ed andava tutto bene.

Poi con un buon numero di pionieri ci trasferimmo vicino a Fiammes dove organizzammo il campo per eseguire i lavori che rendessero percorribile agli automezzi la strada verso il rifugio Sennes perché poi li si doveva svolgere una grande manovra a fuoco interforze chiamata “Display Determination”.

Al campo era una vera pacchia perché dormivo in una grande tenda col ten. Pescatore, addirittura con una branda portata da Bressanone.

Resa percorribile la mulattiere si ritornò a Bressanone; il grosso andò a Pederù per iniziare i lavori della famosa strada, mentre io venni accompagnato dal capitano Pagano al rifugio Sennes. Appena scesi dalla campagnola mi disse: "Qua di fronte dobbiamo realizzare una pista d’atterraggio per aerei leggeri". E mi lasciò. E così per più due mesi restai lì assieme ad un gruppetto di meravigliosi pionieri: quattro erano toscani delle Alpi Apuane, esperti negli esplosivi, uno che guidava il Caterpillar, un altro di supporto con la campagnola per i collegamenti, un sergente che poi se ne andò quasi subito. Di tritolo e miccia detonante ne avevamo una grande quantità; io dormivo in rifugio e tenevo con me i detonatori sistemati nella segatura in una cassettina di legno ed i soldati in tenda. La mattina quando mi svegliavo iniziavamo i lavori che purtroppo andavano a rilento malgrado tutto il nostro impegno e la fatica; per avviare quel maledetto Mattei a volte impiegavamo più di un’ora e poi la composizione della roccia da sbancare era mista a terra per cui si continuavano a rompere le punte dei fioretti. Credo che quelle furono le uniche occasioni della mia vita che mi portarono vicino alla bestemmia.

Una notte morì una mucca, ed il nostro autista, che nella vita civile era macellaio, chiamato dal proprietario la sistemò per benino. E così fummo gratificati dal filetto della bestia che la signora del rifugio ci cucinò. Quel giorno il solito rancio subì una piacevole variante.

Ricordo che un’altra volta ricevetti l’ordine di discendere a Pederù perchè il Capitano voleva vedermi. Arrivai che era l’una passata: Pagano, “Barberi prenda due soldati, tritolo, detonatori, miccia e due martelli “cobra”, e vada in valle Aurina al paese tale e si presenti al geometra tale che le indicherà il lavoro da fare.” Non avendo mangiato dalla mattina avevo una fame che non ci vedevo ed allora obbiettai: “credo sia meglio per i soldati mangiare qualche cosa”. Il Capitano: “parta immediatamente” fu l’ordine perentorio. E così feci, tirando qualche accidente dentro di me. Arrivati sul posto dovevamo rompere dei massi enormi che con le nostre attrezzature avremmo impiegato almeno una settimana. Per fortuna l’impresa che stava realizzando la strada aveva un compressore potente e dei martelli con dei fioretti lunghi 3 metri. Ci mettemmo subito all’opera, e così per sera con una sola volata spaccammo i massi in più pezzi in modo che potevano esser spostati dai loro apripista. Quella sera tornammo a Pederù che era già tardi e dormii lì.

Ogni tanto mio padre e mia madre venivano a trovarmi e così era come essere stato in licenza. Un’altra cosa che voglio ricordare è la famosa manovra a fuoco con i generali della Nato. Io ero l’unico ufficiale inferiore e comandavo un plotone di pionieri, con il compito di aprire i varchi nei campi minati con la famosa vipera esplosiva, in un ipotetico assalto a capisaldi nemici e così fummo aggregati ad una Compagnia di Alpini Assaltatori. Ricordo che quel Capitano urlava sempre in maniera spropositata anche quando non ce ne era bisogno ed i miei pionieri restavano paralizzati dalla paura e non eseguivano gli ordini. Il nostro Comandante, Pagano, Pescatore ed anch’io davamo gli ordini senza urlare e venivano puntualmente eseguiti con disciplina; ed a questo i nostri soldati erano abituati. Dissi allora a quel Capitano: “dica a me quel che vuole sia fatto, gli ordini li do io ai miei soldati” . E così poi tutto filò a meraviglia.

Di aneddoti ne ho una quantità, ma il raccontarli può diventare noioso per chi non li ha vissuti. Così un giorno di settembre ci svegliammo con la sorpresa che durante la notte c’era stata una forte nevicata. Un meraviglioso gallo forcello volò da sotto un pino mugo. Si smontò il campo e si fece ritorno in caserma; i lavori sarebbero proseguiti il prossimo anno.

Arrivato a Bressanone verso sera, in caserma ero l’unico ufficiale. La mattina giravo per il cortile cercando di riappropriarmi della caserma, della forza presente e così via. Vidi arrivare il Colonnello Donati; ero senza cappello, mi irrigidii sull’attenti e risposi stentatamente alle sue domande. Lui comprese.

Dopo qualche giorno sarebbe finito il mio periodo di servizio militare. Feci ancora in tempo a salire verso la Plose a far saltare dei massi che davano fastidio alla costruenda pista di discesa che avrebbe dopo qualche mese ospitato i campionati italiani di sci. Poi arrivò anche Mario Bernasconi e così l’ultima sera andammo assieme alla “Corona d’oro” e mangiammo medaglioni di cervella fritti. Il periodo passato alla Vodice fu veramente meraviglioso e lasciò in me una traccia indelebile.