La nostra "naja"

Giuseppe Cattaneo (il Pin Barba)

Intervista a cura di Erminio Saita

Città2000, 22 aprile 2007

 

IN PROSSIMITÀ DEL 62° ANNIVERSAIO DELLA LIBERAZIONE

Avere 20 anni il 25 aprile 1945

Ricordi “padernesi”. La testimonianza di Giuseppe “Pin” Cattaneo, all’epoca giovane soldato alpino

 

Oggi, Giuseppe Cattaneo di anni ne ha 83. Per molti, lui è il “Pin Barba”. Tutti sanno del suo “amore” per la montagna. Cime, salite, discese. Passo lungo, figura esile, barba e capelli biondi: ora bianchi. Non ama troppo chiacchierare: un alpino, al rumore delle parole preferisce il silenzio. Molti conoscono anche i suoi disegni, i suoi quadri, le sue sculture. In cima al Sodadura, c’è una Madonnina. L’ha fatta e rifatta, più volte: quando la montagna lo ha chiesto. Non è tipo che ostenta le sue capacità artistiche: mai fatto una mostra. I segni della sua mano, della sua anima, però li incontri per le vie di Dugnano e di Paderno. A Dugnano è nato, cresciuto. A Paderno ha vissuto: da padre e ora da nonno. Nel ‘45 aveva 21 anni. Come ricorda, dopo oltre 60 anni, “quel giorno”, il 25 aprile, la liberazione. Gli abbiamo fatto qualche domanda. È venuto fuori un racconto un po’ più denso. Non storie di gesta eroiche (ci tiene a sottolinearlo). La storia di molti ed al tempo stesso di pochi, di un’Italia costretta a convivere, lottare e sopravvivere alla tragedia del fascismo e della guerra.

 

Dov’era quel 25 aprile? E come ricorda quel giorno?

Non fu una giornata diversa da altre. Che fossimo alla fine della guerra era nell’aria da giorni. Lo si capiva dalle colonne tedesche motorizzate in marcia verso la Germania. Ero un alpino in forza a quel che restava della Divisione Monterosa, arrivato a Soresina (Cremona) agli inizi del ’45. Lì, avevamo preso contatti con il CLN locale. La gente di Soresina ci aveva accolto con simpatia. Aveva capito che, pur ancora esercito della RSI, non eravamo fascisti. Con i responsabili del locale CLN avevamo stipulato un accordo di pacifica coesistenza che, con l’insurrezione, divenne collaborazione. Già prima del 25 aprile, il nostro capitano (il Ghezzi) ci aveva lasciati liberi di scegliere “secondo coscienza”. L’ufficiale in capo era invece già sparito. Il 24 aprile durante una perlustrazione, ricordo, fummo chiamati ad intervenire per arrestare alcuni fascisti asserragliati in un asilo. Entrammo e ci trovammo di fronte solo uomini impauriti. Era gente innocua, che non aveva grandi colpe. I fascisti “veri” - quelli delle Brigate Nere - erano già altrove. L’unico fatto di sangue, quel giorno, fu causato da un partigiano che, un po’ troppo eccitato, corse incontro ad una colonna di tedeschi in ritirata agitando un fucile. L’ufficiale tedesco, che poi fu fermato, gli sparò ferendolo gravemente.

 

Sapevate di quanto stava succedendo intorno a voi, a Milano?

C’era a Soresina una signora (Mina Ghiggi) che commerciava in cascami di seta e conosceva il sig. Vico Tavecchio di Paderno (fratello del podestà). Grazie a lei ero riuscito ad avere una lettera di mia madre e di mio padre. Fu lei a raccontarci dell’arresto di Mussolini, della sua uccisione e di Piazzale Loreto.

 

Quando e come tornò a Paderno?

Il 29 aprile, il CLN di Soresina ci consegnò 7.000 lire (ricavate dalla vendita di parte del materiale della Divisione) e ci fornì di un salvacondotto col quale metterci in marcia verso casa. Io presi uno scassatissimo treno delle FNM e arrivai a Paderno il 30 che era ormai mezzogiorno.

 

Che ricordo ha di quel suo rientro a Paderno Dugnano?

Gioia e tristezza, insieme. Gioia perchè riabbracciavo i miei familiari. Tristezza, perché quel 30 aprile in P.zza Matteotti fu fucilato un fascista (Luigi Casini). Si diceva fosse colpevole dell’uccisione in via Oslavia dell’Angelo Cazzaniga. Era amaro constatare come odio e violenza fossero arrivati fin dentro le strade di quella Paderno Dugnano che allora era solo un piccolo paese, prevalentemente agricolo. Conoscevo, di vista, anche Clara Cortesi: una bella ragazza, colpevole di aver aderito alle Brigate Nere fasciste. Fu arrestata, rapata a zero, condotta per le vie del paese, e poi trovata uccisa (a soli ventun anni, quanti ne avevo io) poco lontano da Paderno. La ricordo, obbligata ad affacciarsi alla finestra dell’allora caserma dei carabinieri, per rispondere a mamme e donne che le mostravano foto dei loro figli o mariti. Ricordo il suo volto terrorizzato…

 

Facciamo un passo indietro. Com’era arrivato a Soresina?

È una storia lunga, cominciata quel vergognoso 8 settembre del ’43. Avevo 19 anni, fresco di chiamata al servizio militare di leva, destinato alla scuola ufficiali alpini di Aosta. L’improvvisa resa, la pavida fuga a Napoli del re e di Badoglio avevano creato una situazione drammatica. Un esercito allo sbando, senza ordini e senza comando. Che fare? Ricordo, quel settembre, acquartierata alle scuole di Via IV novembre, una compagnia di Fanteria del 58° Rgt, composta prevalentemente da toscani: brava gente, con la classica parlata e il robusto intercalare di bestemmie ed imprecazioni. Ricordo mio padre (vecchio capitano di fanteria, anche lui del 58° Rgt) e l’avv. Giosafatte Rotondi (già colonnello di artiglieria): andarono a colloquio col comandante di quella compagnia. Era deciso a resistere ai tedeschi. Attendeva però ordini. Il mattino dopo la compagnia non c’era più. Si vide la gente circolare per le strade con zaini, coperte militari e perfino fucili e baionette. In quei giorni lavoravo come avventizio all’anagrafe comunale: ci trovammo assediati da quei soldati in fuga e in cerca di un certificato di residenza che li proteggesse da eventuali controlli. In pochi giorni, il nostro comune aumentò a dismisura i suoi abitanti. Con la silenziosa complicità della signora Agosta, li aiutammo, fornendo loro quei certificati, falsificando anche la firma del podestà (Alberto Tavecchio). E non era una firma semplice…

 

E poi? Cosa successe?

Poi Mussolini fu liberato. Colonne di autoblindo e carri leggeri tedeschi erano scese in Italia dal Brennero. Transitarono anche per le vie di Dugnano. Ricordo i soldati stanchissimi, gli sguardi stralunati dal viaggio a tappe forzate, impolverati fino agli occhi. La confusione era enorme. La paura cresceva. I fascisti erano tornati a farsi vivi. I tedeschi arrestavano i soldati “badogliani-traditori” e li inviavano ai campi di concentramento in Germania.

 

E allora, lei cosa fece?

Coi tedeschi non si voleva tornare. Correva voce di soldati italiani fuggiti in Svizzera. A Dugnano avevo un amico (il Pino Colombo, abitavamo nello stesso cortile) che aveva il padre capostazione a Morbegno. Partimmo e, con altri due ragazzi del paese, tentammo la fuga. In Svizzera però ci rimandarono indietro: erano troppi gli italiani in fuga quei giorni. Rientrando, la confinaria fascista ci scoprì e ci consegnò ai tedeschi. Ci attendeva la fucilazione. Ci salvammo solo grazie alle amicizie locali del Pino (Colombo) e al provvidenziale intervento di quel maggiore Gardini che con noi quattro iniziò la ricostruzione del suo Btg Tirano, decimato nella ritirata di Russia. Non c’era molto da scegliere: l’alternativa era il plotone di esecuzione. Fummo spediti in Germania, al campo di addestramento di Münsingen (vicino a Monaco). Un anno durissimo, freddo siberiano, poco da mangiare e i tedeschi sempre addosso. Poi ci rispedirono in Italia, al fronte. In Liguria, a Genova. A contatto con le brigate partigiane della Garibaldi e della Cichero. Brigate toste, ben organizzate. Con loro non ci fu mai un vero e proprio scontro. Tacitamente ci eravamo intesi e rispettati. Come alpini fummo invece in prima linea contro la 5° Armata Americana, nella battaglia in Garfagnana. Era la fine del ’44 e fu uno scontro durissimo. Poi, fortunatamente, fummo destinati nelle retrovie e a primavera ci ritrovammo a Soresina. E finì così anche la mia “guerra”. Furono due anni difficili che però non affievolirono la speranza, non soffocarono la volontà, non scalfirono la fede. Ai giovani d’oggi dico una sola cosa: la guerra non la vince mai nessuno.

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